Black Mirror 7: si torna alle origini?


La settima stagione dell'antologia fantascientifica di Charlie Brooker, arrivata ad aprile di quest'anno, annovera una delle sue puntate più belle, di cui vi dimenticherete difficilmente, tra altre meno incisive. Quando si guarda una serie antologica, è un tipo di esperienza inevitabile, come lo è - specialmente con una così longeva (il suo debutto risale al 2011) come la rassegna fantascientifica di Charlie Brooker - finire col trovarla ripetitiva. Black Mirror (qui la recensione completa) difficilmente proporre di nuovo qualcosa di assolutamente nuovo, ma riesce ancora a spaventarci con la rappresentazione dei suoi futuri possibili. Se infatti la quinta e la sesta (qui la recensione) ci avevano lasciato il dubbio (fondato) che la golden age della serie antologica sci-fi stesse tramontando, complice la direzione altrettanto distopica che ha preso la nostra quotidianità, ora Charlie Brooker & C. hanno probabilmente scritto una delle sue pagine migliori. E visto che gli effetti della techno-paranoia sulla gente sono sempre più reali e realistici (sì, parliamo dell'AI), pare sempre più sensato raccontarne il lato più umano, emozionale persino. Insomma: meno incubi distopici, più speranza. E se Black Mirror sembra tornare un po' alle sue origini, come aveva già sottolineato lo stesso Brooker, ci sono una delicatezza e una grazia che abbiamo visto soprattutto nei suoi capitoli migliori e più amati (vedi "San Junipero").

Quello che accade ai personaggi di Rashida Jones e Chris O'Dowd in "Common People" è molto peggio. Mike è un operaio, Amanda un'insegnante. Si amano, anzi si adorano, e stanno cercando da tempo di avere figli. Un giorno, all'improvviso, lei sviene. Ha un tumore al cervello che, se rimosso, la renderà un vegetale, ma una nuova fantastica tecnologia sviluppata dall'azienda Rivermind può salvarla. Farà un back up della parte del cervello operata che conserverà in un server accessibile in un raggio di alcuni kilometri, in cambio di una cifra mensile non troppo alta. Rivermind offre un servizio sperimentale, che però continuerà ad alzare – crudele e inesorabile – il prezzo. Come con i programmi di computer e smartphone, improvvisamente diventati "troppo obsoleti", anche le prestazioni offerte nell'abbonamento di Amanda sono destinate a diventare sempre meno performanti. I servizi che prima erano compresi nell'abbonamento standard diventeranno usufruibili solo con piani più costosi, o con l'inserimento di pubblicità. Chi non può più permetterselo è destinato a una lenta agonia. Solo perché ormai tutto costa troppo. Il prezzo da pagare non è solo monetario: in una società capitalista, la dipendenza da un prodotto è la perdita della libertà; se perdiamo anche quella fino a divenire il prodotto cosa resta di noi? Cosa resta dell'umanità? 
"Gente comune" è una tragedia della quotidianità che si muove lenta ma ti resta inevitabilmente addosso e, in puro stile Brooker, è una critica feroce alla sanità, alla pubblicità, al sistema degli abbonamenti e, in ultima analisi, al capitalismo estremizzato. "Common People" non è solo un racconto su un futuro distopico che è davvero troppo vicino, è anche una storia d'amore e di sacrificio straziante. Forse, alla fine, la ricorderemo più per questo, mentre Rivermind sarà diventata realtà. Il finale è stato poeticamente tragico in un classico stile Black Mirror. Intelligente e inquietante.

"Bestia Nera" affronta in modo curioso il molto reale tema del bullismo, mischiandolo con quello un po' meno familiare degli universi alternativi. Maria (Siena Kelly) è una ricercatrice culinaria spaventata dall'arrivo nel suo ufficio di un'ex compagna di classe, la geniale Verity (Rosy McEwen), che tutti adorano ma che lei considera disturbata e pericolosa. Verity si mostra sempre gentile nei confronti di Maria, ma quest'ultima, a seguito di una serie di spiacevoli episodi, si convince che Verity sta architettando qualcosa contro di lei. Difficile provare pena per Maria, convinta di averla fatta franca con i peccati di gioventù, forse più facile tifare per l'ex emarginata assetata di ammirazione sociale che, tramite un piano genuinamente meschino, costringe l'ex compagna a subire il ribaltamento dei ruoli. Più gli incidenti capitano, più la paranoia di Maria diventa palpabile (e contagiosa). 
Il concept inizialmente spacca: un thriller sul posto di lavoro dove un'ex bulla (Maria) e un'ex bullizzata (Verity) si incontrano mediante un piano metodico di quest'ultima e si scontrano su chi pensa di avere ragione sugli incidenti che capitano a Maria provocati da Variety. Il gaslighting è una forma di manipolazione psicologica che induce le persone a dubitare che dati avvenimenti siano realmente accaduti; al giorno d'oggi si parla spesso di questa manipolazione, a volte con cognizione di causa e a volte anche in modo totalmente arbitrario ed errato: per quanto sia apprezzato lo sforzo di analizzarlo sullo schermo, il conflitto tra le due protagoniste, che si dovrebbe consumare in una guerra psicologica, risulta piatto, molto meno angosciante di quanto ci si potesse aspettare e non colpisce particolarmente, generando confusione. Che Maria riesca o meno a dimostrare di avere ragione, passa in secondo piano, quando arriva una rivelazione veramente, veramente folle che precede un finale un po' frustrante. Una collana collegata a un computer quantistico che può letteralmente controllare la realtà? 
In conclusione il bullismo genera mostri (in questo caso hi-tech), le interpretazioni sono spettacolari (le espressioni di Verity!), la dinamica tra le due protagoniste tiene incollati, anche se confusa, e anche il colpo di scena funziona lasciando non poche perplessità. Episodio decisamente ansiogeno, alla Black Mirror, ma poteva essere gestito meglio il finale.

"Hotel Reverie", il mio preferito, è affascinante, romantico e nostalgico come la sua idea di partenza, quella di poter (ri)vivere in prima persona vecchi film dell'era d'oro di Hollywood con personaggi creati dall'intelligenza artificiale, ignari di essere personaggi di un film e pertanto capaci di amare come le persone in carne e ossa. L'episodio prova a replicare la formula di "San Junipero": una storia d'amore tra due giovani donne in una realtà fuori dal tempo e dallo spazio. Solo che qui quel luogo magico è un vecchio film in bianco e nero, in stile Casablanca con protagonista l'attrice interpretata da un'eterea Emma Corrin, di cui lo Studio vuole realizzare un reboot attraverso l'uso della tecnologia ReDream, che permette alla nuova protagonista di entrare in scena e recitare fisicamente insieme agli altri personaggi. Lo studio di produzione vuole riproporre il film sotto forma di remake e decide di utilizzare questa nuova tecnologia per la quale l'unico ad essere modificato nel cast sarà il protagonista maschile bianco che diventa una donna nera, l'attrice Brandy Friday (Issa Rae), che dovrà interagire con la pellicola originale, e che quindi se muore nel gioco muore anche nella realtà. 
La storia è avvincente e mi è piaciuto vedere come Brandy ha reagito all'ambiente falso anche quando le cose sono andate fuori controllo. Manca un po' la chimica tra le due protagoniste, ma l'idea alla Brooker è interessante come un tempo e con il finale più positivo dell'intera stagione.

"Come un giocattolo" è dimenticabile, ma si salva grazie al cast, nel quale torna Will Poulter nel ruolo di Colin (il programmatore pazzo di "Bandersnatch"). Viene rivelato che negli anni '90 aveva affidato a un geek solitario, Cameron, autore di recensioni di videogiochi, la sua nuova invenzione, un gioco ambientato in un mondo abitato dalle prime forme di vita digitali che l'utente deve nutrire come Tamagotchi per permettere loro di evolvere. L'episodio inizia con un uomo ormai anziano, appunto Cameron, che viene arrestato per tentato furto in un negozio. Mentre lo interroga come sospettato di omicidio, la polizia scopre un'altra storia: da giovane era riuscito a mettere le mani sul videogioco creato dal leggendario sviluppatore Colin Ritman (Will Poulter). Ma più che un vero e proprio gioco, Thronglets è un simulatore di intelligenza capace di evolversi e di portare Cameron alla follia o forse alla lucidità più estrema. Finale ambiguo, confuso e agghiacciante.
Netflix ha anche rilasciato il gioco che ne completa l’esperienza, ma quello che manca è l’elemento umanissimo che invece è la chiave di quasi tutta la stagione. Questo episodio di Black Mirror non mi ha convinta del tutto.

"Eulogy", con protagonista Paul Giamatti nei panni di un uomo che vuole ricordare il grande amore della sua vita grazie a una tecnologia in grado di fargli rivivere i momenti immortalati nelle fotografie, è toccante e malinconico, ma anche ingannatore. Il vero scopo della storia, infatti, è dimostrare quanto i ricordi siano soggettivi e la realtà un costrutto personale che ci creiamo per proteggerci, o affrancarci dalle nostre responsabilità. Dopo la morte di una sua ex fidanzata, Phillip viene contattato da un'azienda, Eulogy, per dare il suo contributo all'organizzazione di un funerale immersivo, grazie a un dispositivo che lo aiuterà a rivivere i suoi ricordi più cari con la defunta anche attraverso delle foto in cui può entrare. Letteralmente. Una toccante esplorazione del dolore, di quanto la nostra prospettiva possa in qualche modo distorcere i ricordi e di come la tecnologia portata all'estremo possa anche fare del bene. Nessun orrore qui, soltanto nostalgia, malinconia e la progressiva e straziante consapevolezza di quello che è successo davvero. 
Brooker ha scritto l'episodio dopo la scomparsa del padre e l'interpretazione dei personaggi è assolutamente perfetta. Qui si ritorna nuovamente alle origini, come aveva già fatto "Common People" o "Hotel Reverie", in cui si visualizza il cuore della serie: l'obiettivo non è parlare di tecnologia fine a sé stessa, ma di come l'uomo può creare con essa una relazione non artefatta ma realistica o addirittura reale. Mi ricorda Se mi lasci ti cancello.

La chicca della serie è "Uss Callister: Into Infinity", il sequel di "Uss Callister" (quarta stagione), la parodia distopica di Star Trek, incentrata sul videogame creato dal programmatore impersonato da Jesse Plemons che clona i colleghi e li intrappola nell'universo virtuale del gioco, dove sono gli unici giocatori in grado morire per davvero. Nel primo caso di sequel di un racconto di Black Mirror, rivediamo la maggior parte del cast originale, compresa la capitana Cristin Milioti e il diabolico Ceo con le fattezze di Jimmi Simpson, qui alle prese con un doppio ruolo (il secondo è esilarante). Dopo averlo sconfitto, ora Nanette Cole (Cristin Milioti) e il resto dell'equipaggio, sempre bloccati nell'universo virtuale di Infinity, il videogame più immersivo che si possa immaginare, lottano per la sopravvivenza contro 30 milioni di giocatori. La ricerca della propria identità è la vera missione dell'improbabile squadra. È il finale perfetto per questa stagione, fedele all'originale e senza dubbio l'episodio più d'intrattenimento tra quelli nuovi: pare un film di fantascienza ad alto budget con tanto di trama coinvolgente e piena zeppa di twist. C'è comicità, forse fuori contesto, visto che nel prequel non c'era. Nonostante il forte hype del pubblico, non è uno dei miei episodi preferiti, come non lo era il suo predecessore, a causa della forte fantascienza, ma ammetto che Brooker sa come sorprenderci.
Un po' ridondante ed eccessivamente lungo (un'ora e mezza di durata).

A questo punto, vale un'altra osservazione: la settima stagione di Black Mirror è la più sentimentale, più del futuro della tecnologia parla dell'immutabilità delle emozioni umane. Il tono generale della stagione è più drammatico, ma non meno disturbante. È un dramma emotivo, non esistenziale. Il che, in un certo senso, lo rende ancora più vicino a noi a livello emozionale e rende sempre più vero il concetto che non è la tecnologia a renderci mostri, ma è la nostra mostruosità a venire fuori attraverso essa. I primi episodi sono quelli più coinvolgenti, per poi immergersi nell'universo fantascientifico alla Brooker. Nel complesso la prova è più che superata, considerando i flop delle ultime stagioni. Ormai siamo ad un livello più alto: la tecnologia è diventata il presente e Brooker ci vuole avvisare che non dobbiamo più sorprenderci se il futuro mostrato non è più così troppo lontano. E allora eccolo, lo specchio. Non è nero, stavolta. Ha l'aspetto di qualche pixel bruciato, di una faccia scarabocchiata da un pennarello. Ma continua a riflettere (e farci riflettere su) quello che siamo, o che potremmo diventare. Forse la stagione più matura che non ha più bisogno di traumatizzarci.
Non serve più l'effetto shock quando il mondo là fuori è già più distopico di qualsiasi episodio. Basta accendere i nostri schermi. E anche i prossimi movimenti di camera di Brooker.