All'inizio
dello scorso anno, quando uscì la notizia di Boris 4 "così de
botto, senza senso", non ci sembrava vero ed era come un sogno - tanto sperato
da noi fan che di questa serie non ne abbiamo mai abbastanza - diventato
finalmente realtà e non semplicemente una semplice reunion come credevamo. Trasmessa
da Fox, ex canale di Sky, Boris è finita prima su Netflix
nel 2020 dove, complice la pandemia, è stata riscoperta e amata da un nuovo
vastissimo pubblico. Poi, una volta presa la decisione di continuare, è stata Disney
a produrre, perché nel frattempo ha comprato 20th Century Fox.
Come già
accennato nella recensione delle prime e intramontabili tre stagioni della
serie, Boris ha rappresentato un'esperienza formativa cruciale,
raccontando, attraverso il mondo della televisione, i casini di un paese in
piena crisi eppure incapace di rinunciare a schemi vecchi.
Scritta ancora una
volta da Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, in assenza questa volta di Mattia Torre,
scomparso prematuramente pochi anni fa, a cui è stata proprio dedicata la serie
(da notare i riferimenti del terzo sceneggiatore, quello interpretato da
Valerio Aprea, una figura quasi ultraterrena, come per far credere che sia
morto anche lui nella finzione, perciò si direbbe un alter ego di Mattia Torre), è riuscita a
mostrare che una nuova televisione era, in effetti, possibile, ed è anche
grazie ad autori come questi, cresciuti nel sistema delle tv generaliste, ma
con un piede nella cultura indipendente, se nel corso degli ultimi anni abbiamo
potuto spararci serie come Gomorra, così ancora adesso, con questa
quarta stagione, non siamo rimasti delusi.
Non si
smette di ridere di e con René Ferretti (Francesco Pannofino), stavolta alle
prese con Vita di Gesù, improbabile produzione perorata da Stanis e
Corinna (Pietro Sermonti e Carolina Crescentini), diventati marito e moglie – fondatori della casa di
produzione SNIP/So Not Italian Production (che prende il nome da uno dei
tormentoni delle prime tre stagioni di Boris); si tratta di un progetto partito dalla mente malata di Stanis LaRochelle, in cui ovviamente
Stanis è Gesù, ormai 50enne e quindi fuori parte. Il vero miracolo/compito è
quello di convincere i responsabili della "piattaforma" ad acquisire
e produrre questa serie, dunque troviamo ancora Alessandro (Alessandro Tiberi),
divenuto portavoce della fantomatica piattaforma e, per questo, perennemente
incasinato tra le esigenze del misterioso algoritmo e una referente decisa a
investire nel progetto evangelico di cui sopra (sempre schiavo ma di qualcun
altro); nel cast di produzione troviamo anche il direttore della fotografia
cocainomane Duccio (Ninni Bruschetta), che dopo un periodo a Bollywood adesso è
un asceta zen che comunque non ha perso il vizio, oltre all'immancabile Arianna
(Caterina Guzzanti) - qui ora sposata e con un figlio a carico - la solita
àncora di salvezza, unico baluardo di abnegazione e professionismo che separa
la riuscita del progetto dalla débâcle totale; poi il trafficone incompetente
Lopez (Antonio Catania), che irrora la produzione con liquidi dalla provenienza
molto dubbia; infine Sergio Vannucci (Alberto Di Stasio), che alla fine al
gabbio ci è tornato; e ovviamente non può mancare Biascica (Paolo Calabresi),
ancora una volta il tizio più inadeguato sulla piazza, per certi versi il più
tragico, soprattutto alla luce delle nuove norme di inclusività e rispetto
previste dal set. Al cast fisso si aggiungono le solite guest, tra cui Karin, Cristina, Martellone; e poi Mariano,
che ha abbandonato i deliri religiosi e ha abbracciato una psicopatia armata
ancora più pericolosa, interpretato dal solito titanico Corrado Guzzanti,
l'unico in grado di farti scoppiare dal ridere semplicemente dicendo la parola "pepperoni!". Anche Giorgio Tirabassi riveste i panni stropicciati del brutale
Glauco, regista e direttore della fotografia maneggione sempre pronto a
manipolare gli attori per il proprio personale tornaconto. Dopo 15 anni tutti i
personaggi sono tornati, sicuramenti più vecchi ma assolutamente veri nelle
loro stranezze, non facendoci mancare le solite gag, in aggiunta ad alcune
nuove (come il classico espediente del "lo dimo"), ricordando anche alcuni assenti,
attraverso bellissimi omaggi, tra cui Roberta Fiorentini, l'interprete di Itala
scomparsa nel 2019 (la stagione si apre con il funerale della segretaria), e allo sceneggiatore Mattia Torre. Un altro tributo al
compianto sceneggiatore arriva alla fine dell'ultimo episodio, ed è un momento
così poetico e struggente nella sua imprevedibilità metatelevisiva che per
trattenere le lacrime non basterebbe avere una scatola pieni di kleenex. E allora
qui non servono "gli occhi del cuore" per guardare Boris 4 perché, si
sa, "l’inferno è pieno di quarte stagioni".
È vero, ora
non c'è più la Rete, la tv generalista è in crisi, lo streaming con il suo
algoritmo regna sovrano, ma la capacità di adattamento dei nostri è immutata. Alessandro
è un "capoccione" in bilico tra il comandare e l'essere comandato, la star
della tv è cresciuta da attore a produttore, con tanto di testa pelata, sempre
in costante crisi con la solita svampita ma cresciuta e non più scema Corinna
che per la prima volta sul set sarà capace di stupire René e Arianna, Duccio
prova a mettere la testa a posto ma non ci riesce. Insomma tutti sono sempre
gli stessi, a cominciare da Renè e Arianna, le due rocce del set, che con
tutti gli altri della troupe si trovano a lavorare per una piattaforma, ma il
mondo è cambiato: ora i giovani volti sostituiscono i vecchi, le tecnologie e
un nuovo linguaggio di marketing internazionale si devono adattare tra le
vecchie e le nuove generazioni, "le merde diventano capoccia" e gli
impicci con le fatture non sono più possibili. È l'algoritmo che comanda, è lui
il vero antagonista della serie, un'entità ancora più fredda e inavvicinabile
del dottor Cane: "ma non ce se po parlà co st'algoritmo?". È ora lui che
decide i contenuti delle puntate privilegiando l'inclusione, la
standardizzazione, il politicamente corretto anche se a risentirne sarà la
stessa riuscita del prodotto. Andare incontro alle svariate richieste dell'algoritmo
vuol dire snaturare ulteriormente il progetto di René, modificando la
sceneggiatura e aggiungendo elementi che nella Palestina di duemila anni
avevano poco a che fare. Ma a tutto ciò aveva già pensato Lopez, promettendo al
cugino calabrese "appassionato" di cinema italiano di inserire degli amici
conterranei all'interno della troupe e delle comparse, con il risultato di
alcune banalissime gag sul dialetto calabrese; e altre con il gusto di chi si
crede bravo ma non lo è ("no, io la roba bella non la guardo" del burbero
attore Tatti Barletta, interpretato da Edoardo Pesce). Proprio nell'ultimo
episodio René viene stanato e portato a giudizio dalla piattaforma dopo aver
provato a rubare del materiale da un'altra produzione con protagonista Tatti
Barletta, così sul finale, invece di accettare le decisioni di Lopez e della piattaforma,
sceglie di tentare l'impossibile: un'orazione che ribalti il finale, uguale a
tantissimi discorsi già avvenuti nella storia del cinema e della televisione, che si tramuterà in un balletto sulle note di What a Feeling.
I dialoghi e le battute non sempre vanno
di pari passo alla struttura narrativa rispetto alle prime stagioni. Da una
parte manca un vero personaggio ereditato da Alessandro, e dall'altra alcuni
stereotipi che ruotano intorno alla figura di Renè si sono fatti sentire,
facendo proseguire con incredibile lentezza gli ultimi episodi; di contro c'è
sicuramente la quantità di episodi minori rispetto a prima (8 vs 14). Nel complesso,
però, gli autori hanno fatto un buon lavoro, consegnando una quarta stagione
migliore e più fresca sia della terza che del film.
In un
formidabile numero di equilibrio tra passato e presente, nel mirino degli
autori è finito davvero di tutto: distorsioni social, il dialogo tra
inclusività e mercato, gli algoritmi che influenzano le piattaforme di
streaming, le piattaforme di streaming stesse - compresa quella che tira avanti
la baracca - e l'incapacità, da parte delle generazioni più attempate, di
partecipare correttamente al presente o mollare la presa; a questo si aggiungono
gli ambienti lavorativi tossici, il sessismo e la corruzione. Con Vita
di Gesù spesso si sfiora la blasfemia, mai di cattivo gusto. La serie lo fa con una comicità mai becera, e senza
mai cadere nella discriminazione, anzi ma con una sottile e sapiente ironia,
quella che ha sempre adoperato ancor prima del tempo Boris, mostrandosi mille passi avanti.
Un nuovo testo conserva, come sempre,
l'inimitabile melodia de' Gli occhi del cuore, brano di Elio e le Storie
Tese, modificato ad hoc di volta in volta. D'altra parte, persino i personaggi
dei tre sceneggiatori della troupe hanno sempre rispecchiato perfettamente
quelli di Boris, facendo pensare che anche la nostra fuori serie sia
realizzata un po' "a c***o de cane". Una storia nella storia che, come
si suol dire, fa ridere ma anche riflettere. Dal 2007 Boris è diventata
parte delle storie di ognuno di noi, capaci di riconoscerci in quelle di ogni
personaggio della serie, costantemente fuori tempo e fuori posto, in un
presente che corre troppo veloce e divora tutto. Aspettative, lavoro, rapporti
sociali.