INVENTING ANNA


Una delle storie più incredibili degli ultimi anni, portata sullo schermo dalla regina indiscussa della serialità, Shonda Rhimes (Grey's Anatomy, Scandal), con una costruzione che alterna diversi piani narrativi con musiche R&B e hip-hop, e location da urlo. Un cocktail di elementi che rende Inventing Anna probabilmente il prodotto uscito da Netflix più discusso di quest'ultimo anno. C'è il mondo glamour di New York; c'è l'enigma che si dipinge di giallo, in una sorta di rincorsa continua tra giustizia e truffa. La storia quasi mitizzata del personaggio di Anna Sorokin, nota all'alta società di New York con il nome fittizio di Anna Delvey. ha suscitato diverse critiche. Anna è il tipico caso di un personaggio reale, che sembra nato per il cinema. E per la truffa. Affascinante, misteriosa, fredda e manipolatrice, la giovane esce dalla serie come una sorta di eroina del nostro secolo, venuta dal nulla per costruirsi da sola quello che si rivelerà essere poi un castello di carta.

Anna Delvey (Julia Garner), giovane ereditiera tedesca, è a New York per creare una fondazione artistica a proprio nome – l'ADF, ovvero l'Anna Delvey Foundation, un club esclusivo newyorkese per i migliori artisti della Grande Mela - e, contestualmente, vivere alla grande frequentando la crème de la crème dell'alta società, vivendo nei migliori hotel di lusso e concedendosi vacanze da sogno nei resort più esclusivi. Il suo desiderio è quello di diventare nota, anche se si trova in carcere, e di scandalizzare i lettori dei quotidiani e dei tabloid americani. Nata in una cittadina del sud est di Mosca per trasferirsi con la famiglia in Germania da adolescente alla ricerca di una vita migliore, Anna arriva a New York nel 2013 e capisce che quello è il luogo giusto per realizzare la sua visione, un club privato super esclusivo con annessa fondazione artistica. Ha anche trovato il luogo giusto per ospitarlo, l'esclusiva Church Missions House a Park Avenue. 
Inventing Anna ne racconta l'ossessione ai limiti del patologico per realizzare la sua visione. Una bugia se ripetuta più volte finisce per diventare vera, giusto? Nel caso di Anna Delvey, sì. Ma il suo cognome in realtà è Sorokin: Anna è una truffatrice di origini russe che finirà in carcere per aver frodato migliaia di dollari ad amici, hotel e banche. Vivian Kent (Anna Chlumsky) è una giornalista che vuole scrivere a tutti i costi un articolo su Anna per rivalutare il suo nome dopo l'infamante accusa di aver diffuso delle fake news. Ma chi è Anna? E come riesce ad ingannare le persone ed ottenere tutto questo successo? Figlia di persone comuni – un camionista e una casalinga -, la giovane Anna ha capito durante il viaggio negli Stati Uniti che lì è facile "fare amicizia" con la gente che conta. E, semplicemente, l'ha fatto. Aggiorna sempre il proprio profilo Instagram con foto dei suoi viaggi, dei suoi look, degli aperitivi e delle feste a cui partecipa; per godersi la vita e per conoscere più persone famose possibili. Così, di conoscenza in conoscenza, ha rafforzato il suo personaggio di ereditiera con un fondo di sessantadue milioni di dollari appoggiati su conti tedeschi e un papà invadente e umorale che ogni tanto le blocca le carte di credito. Tutto falso, ma credibile. La giovane accumula così debiti fantasmagorici, finché la corda non si spezza. La donna è stata realmente arrestata e poi condannata nel 2017 per diverse frodi per ingentissime somme di denaro. 

La narrazione inizia con Anna in carcere, in attesa del processo, che insiste nel confermare la sua storia contro ogni evidenza. Osteggiata dal caporedattore che vorrebbe darle il compito di seguire la cronaca del #metoo, Vivian farà di tutto per convincere l'editore a darle una chance con la "dumb socialite" (stupida mondana) Anna Delvey. La prima impressione di Vivian è che debba esserci assolutamente un errore, ed è con lo scopo di aiutarla - oltre che di raccontare una storia che possa attirare l'attenzione dei suoi lettori, ovviamente - che inizia ad intervistare amici e conoscenti della giovane caduta in disgrazia. Vivian intervista chiunque abbia avuto a che fare con Anna, ed è proprio attraverso il gioco dei flashback che il mosaico si ricompone. Non senza difficoltà, visto che la protagonista mente costantemente, dopo aver accettato comunque alla fine di fare l'intervista con Vivian perché ogni cosa che finirà sui giornali "funziona perché se ne parla". Anna è il lato oscuro del sogno americano, da sempre millantato come alla portata di chiunque. Qui sta anche il problema che vizia la riuscita della serie: una volta chiarito l'inganno di Anna, la narrazione si fa ripetitiva, e tenta di raccontare come alcuni personaggi-chiave rimangano affezionati a lei nonostante le sue malefatte. La stessa Anna, una squilibrata narcisista anaffettiva priva di ogni rimorso che non esita a prosciugare i conti di chiunque – inclusa una delle sue migliori amiche, viene rappresentata in maniera quasi idealizzata. D'altronde "questa storia è completamente vera. Tranne per tutte le parti che non lo sono" è la frase che apre ogni episodio poiché la vicenda di Anna Delvey-Sorokin è realmente avvenuta, bensì ne è stata modificata un po' la storia.

Ispirandosi all'inchiesta realizzata da Jessica Pressler per il New York Magazine dal titolo "Come Anna Delvey ha ingannato i newyorkesi che contano", Shonda imbastisce una narrazione che mette di fronte la truffatrice e la giovane giornalista Vivian Kent. Come in un gioco di specchi, le protagoniste-antagoniste si trovano a condividere un legame conflittuale e complice, divertente e misterioso. Le avventure di questa giovane artista della truffa russo-tedesca, che per due anni ha finto di essere una ricca ereditiera per frodare banche, hotel di lusso e l'élite di tutta New York, sono interessanti. Tutto il resto no. Il più grande problema sta in Julia Garner, l'attrice protagonista, un po' troppo distaccata dal pubblico. Anna Delvey doveva essere spocchiosa e snob, è vero, ma così si arriva alla totale assenza di empatia con lo spettatore che non fa mai il tifo per lei e, verso metà della narrazione, si annoia anche. A volte si ha l'impressione che si tende a cercare di giustificare alcuni dei suoi comportamenti manipolatori e assurdi, arrivando però al punto di confermare la pazzia della donna. Il finale si rialza e giustifica l'intera visione della serie. 
Inventing Anna è composto da nove episodi della durata di circa un'ora. Ogni puntata è dedicata allo svelamento del punto di vista di un personaggio implicato nei fatti: il fidanzato, le amiche, l'avvocato di Anna. Ogni prospettiva aggiunge un pezzo del grande puzzle della storia, permettendo allo spettatore di farsi strada all'interno di una vicenda complicata e fatta di chiaroscuri. Nessun personaggio può essere semplicemente considerato buono o cattivo; ognuno, chi più chi meno, porta avanti i propri interessi. La scelta di procedere su due linee temporali diverse, il presente e il passato recente, è importante nel mantenere sempre alto il coinvolgimento di chi guarda, che si trova davanti un vero e proprio mistero da risolvere. Alla base di Inventing Anna sembrerebbe esserci "il bisogno", la necessità di qualche cosa, come ribadiscono in continuazione i personaggi. Il proprio interesse, che sia puramente economico o volto a preservare la propria reputazione, è il motore di ciascuno di essi, seppur con le ovvie differenze di modalità e di intenti. Dall'avvocato di Anna, Todd (alla ricerca del ritorno di una brillante carriera e di salvare il suo matrimonio) a Vivian, la giornalista modellata sulla vera Jessica Pressler, passando per Rachel, amica di Anna, che venderà la sua storia per soldi: sono tutti in cerca di qualcosa. E spesso non si fanno alcuno scrupolo nel calpestare gli altri o semplicemente nell'utilizzarli come un mezzo per il loro fine. Ovviamente in cima alla lista troneggia Anna, in grado di mischiare le carte in tavola sempre a suo piacimento, di mentire con una facilità disarmante e di fingere di essere qualcun altro. Anna sembra aver vissuto la vita di persone diverse. Quante Anna è riuscita ad impersonare? E quale di queste è disposta a sacrificare per il proprio sogno? Resta il fatto che la presenza ingombrante di Anna nella vita delle persone porta disgrazie e allo stesso tempo enormi fortune. Ed è su questo ambiguo filo di salvezza e condanna che si muove Inventing Anna.


La scrittura incalzante e una regia brillante rendono il prodotto godibile, insieme ad una recitazione molto buona. Quello che, però, rende così particolare questa mini-serie di Netflix è che si tratta di un vero e proprio J'Accuse a una società tutta improntata sulle apparenze e non sulla concretezza che stride ancora di più con i venti di guerra dell'attualità. La storia di Anna Delvey diventa, in alcuni casi, anche il pretesto per affrontare temi più seri e meno mondani come la disparità sociale, il ruolo delle donne nella società attuale, il pregiudizio sulla popolazione di origine russa. Si tratta di spunti di riflessione che vengono solo accennati nella serie, ma sono presenti e degni di nota. Shonda Rhimes forza un po' la storia originale per adattarla alla narrazione televisiva: il fidanzato di Anna, Chase, aspirante guru della tecnologia in procinto di sviluppare un'app, "Wake", con lo scopo di catturare e raccogliere dati dai sogni delle persone, è quasi completamente inventato viste le poche informazioni sull'originale. Il problema del personaggio di Vivian, fondamentale al racconto della vita di Anna, in quanto è lei ad unire insieme tutti i personaggi e le storie, la quale diventa così il mezzo – e non il fine – di Inventing Anna, è l'eccessivo spazio che si ritaglia. Moltissime scene sulla sua gravidanza sono superflue e le incursioni sulla sua vita privata banalizzano la sua personalità e la serie stessa. Inoltre è difficile immaginare come qualcuno abbia potuto credere che l'Anna Delvey della serie possedesse un enorme fondo fiduciario e le abbia concesso un prestito da ventidue milioni di dollari per avviare la sua attività a Manhattan. 

Personaggi negativi come Anna Delvey andrebbero dipinti per quel che sono, perché appena cerchi di intravederci del buono perdono ciò che li rende interessanti: l'essere degli stronzi, per l'appunto, né più né meno. Come direbbe Miranda Priestly: "Tutti vorrebbero essere noi" e alla fine noi ad Anna e ai suoi creatori sullo schermo perdoniamo (quasi) tutto. Anche pensare di essere migliori degli altri.