Il pilot
di Narcos ci informa che la Colombia è la patria del realismo, dove si
intreccia la storia vera e quella raccontata del più folle narcotrafficante di
tutti i tempi dalla sua ascesa alla sua caduta: dall'essere un piccolo
contrabbandiere a diventare il più potente uomo ricco al mondo al finire
braccato come una bestia nel suo stesso paese.
La fuga da La Catedral è il punto di partenza
della seconda stagione, nel disperato tentativo del re della cocaina di
riacquistare la sua egemonia su Medellín. La storia ci dice che dalla fuga
dalla prigione avvenuta il 22 Luglio 1992 all'uccisione avvenuta il 2 Dicembre
1993, Pablo passò fondamentalmente il tempo a nascondersi. Mentre la prima
stagione era stata per quanto possibile fedele alla realtà dei fatti,
alternando materiale romanzato e riprese reali, formando il mix che ha portato
al successo la serie, ora sembra che la finzione prevalga. Durante il secondo
ciclo di episodi ho patito la diluizione narrativa della vicenda che mi ha
realmente interessata solo in vista dell'epilogo alla luce del progressivo
isolamento di Pablo Escobar, ridotto, negli ultimi episodi, ad arrabattarsi con
un solo uomo fedele a disposizione. Un epilogo che già tutti conosciamo e anche
per chi non conosceva bene la storia, come me, non è del tutto inaspettato.
Con la morte di Pablo Escobar, Narcos si avvia
verso un cambiamento narrativo radicale: una terza stagione che si apre con
i nuovi cartelli colombiani pronti a prendere il potere dopo la morte di
Escobar, ma che chiude anche, però, inevitabilmente, un ciclo. Pablo Escobar
era, all'interno di Narcos, un protagonista carismatico e
catalizzatore di ogni storyline.
Narcos ci regala uno
spaccato credibile e potente della Colombia di quegli anni, in cui
tutti (politici, poliziotti, calciatori, giornalisti) hanno prosperato grazie
alla droga. Le atmosfere e i colori sono tipici del cinema sudamericano. Senza considerare
l'ultima stagione, la storia di Pablo Escobar è piuttosto coinvolgente. L'unica pecca è che la
serie tv è in parte in lingua originale con sottotitoli, a mio avviso per
evidenziare ulteriormente le caratteristiche della popolazione locale
protagonista della serie.
Dieci episodi per ogni
stagione dove nelle prime due viene raccontata la storia di Escobar attraverso
la voce dell'agente della DEA Steve Murphy e nella terza le conseguenze della sua morte.
Montagne
di coca e fiumi di coca creavano montagne di dollari e fiumi di dollari, così
tanti che anziché riciclarli si seppellivano nelle terre dei campesinos su
tutto il territorio colombiano. Si tratta di un racconto abbastanza dettagliato
di quello che fu uno dei periodi più gravi per la Colombia e gli Stati Uniti in
merito al traffico inarrestabile di cocaina. Non manca la violenza cruda
intorno a dei personaggi spietati magistralmente caratterizzati. In particolare
quello di Pablo: ambivalente, contraddittorio per natura, non può non
affascinare il pubblico. Ma anche la donna, rappresentata esclusivamente come
oggetto sessuale, è disposta a tollerare, giustificare ed approfittare delle
turpitudini di uomini dominati dall'ambizione.
È chiaro che il racconto dei
gangster non è nuovo e potrebbe trattarsi della classica serie che enfatizza la
violenza, ma qui va osservato più che altro il modo in cui viene narrata ogni
vicenda: una regia accurata e attori sorprendenti incorniciano una storia vera,
dove non c'è niente di inventato e poco romanzato. Le recitazioni sono
impeccabili e molto credibili, dai personaggi secondari fino al protagonista, concentrandosi su una ricercata somiglianza degli interpreti (quel ruolo sembra essergli stato
cucito addosso all'attore di Escobar). La ricostruzione d'epoca risulta molto convincente sia
per i costumi sia per le ambientazioni. La regia di José Padilha, a tratti
documentaristica, è di
grande qualità sia quando si rivolge agli aspetti del thriller sia ai momenti
di tenerezza di Pablo nei confronti dei suoi figli e della sua famiglia.
Tutto inizia con la presa al potere di Pinochet, che
con una lotta al narcotraffico costringe i produttori di coca a rivolgersi a
nuovi sostenitori in Colombia. Ecco che entra in gioco Escobar, un contrabbandiere che
sta consolidando il suo dominio nella sua città natale Medellín, con mire
espansionistiche degne di un fürer. In poco tempo gestisce uno dei più
grandi cartelli della droga colombiana. Saranno gli effetti devastanti del suo
commercio di cocaina a Miami a spingere l'agente della DEA Murphy a trasferirsi
a Bogotà per iniziare una caccia senza precedenti. Ad aiutare l'agente Murphy e l'agente Peña ci sarà il colonnello Horacio Carrillo, uno dei pochi esponenti
incorruttibili delle forze armate. Abbiamo tante importanti alleanze, ma anche
i primi nemici di Escobar, i quali pensano bene che estorcere denaro a magnati
della droga (e trafugare la Spada di Simón Bolivar, un grosso gesto di
natura politica) sia una buona idea per farsi conoscere. Il gruppo
rivoluzionario comunista M-19 rapisce la sorella dei fratelli Ochoa,
diretti alleati di Escobar; una mossa le cui ripercussioni non tardano ad
arrivare. Dopo l'uccisione del politico Rodrigo Lara, la
DEA cerca supporto dagli uomini della CIA, gli unici in grado di contrastare lo strapotere
di Escobar nel suo Stato di origine. Si crea, poi, una connessione tra
lui e le forze di matrice comunista, mentre si dà tutto il supporto possibile a
membri del Congresso colombiano favorevoli alle manovre di estradizione contro
i narcotrafficanti, primo fra tutti Luis Carlos Galán. L'incendio al
palazzo di Escobar è il primo esempio di battaglia tra narcos e DEA,
specialmente, poi, grazie all'intervento dell'M-19 con la sanguinosa strage alla
Corte Suprema Colombiana. A questo proposito la CIA sposta l'obiettivo lontano
dal re della droga sudamericano, concentrandosi sul bersaglio meno importante
e mancando di fornire ulteriori aiuti a Murphy.
In poco tempo Escobar è sotto fuoco: la
CIA ha raso al suolo le sue officine, minando alla base la filiera produttiva
di cocaina. La sua stessa famiglia mette in discussione le sue mosse,
dalla nuova residenza di Panama, confessando la volontà di tornare in
patria.
Nella macrostoria di Narcos ci sono infinite
microstorie dalle prostitute colombiane brutalizzate alle donne dei boss, le
figlie, le madri, i bambini. La madre di Escobar sembra avere dei dubbi sulla
responsabilità del figlio per l'attacco all'aereo, la moglie Tata spazza
via l'incertezza con tono quasi stanco: non è
possibile guardare la realtà se sei la moglie di un criminale. Poi c'è Valeria
Velez (nella realtà Virginia Vallejo), giornalista colombiana, famosa amante di
Pablo. Tutti intorno a Pablo che si nasconde dalla DEA, senza allontanare
dalla testa la sua visione boliviana di diventare Presidente della Repubblica, fino
ad essere arrestato, arrivando a costruirsi la sua personale prigione-reggia
dove scontare la pena. Dopo neppure una
settimana dalla morte del più stretto collaboratore di Escobar, il governo
colombiano si arrende ai narcos: l'estradizione non è più un pericolo e Pablo avrà
la possibilità di costruire La Catedral, prigione di lusso dove
potrà continuare a fare affari senza il disturbo della polizia, costretta a
tenersi a svariate miglia di distanza. Murphy e Javier si ritrovano a
dover lavorare di nascosto portando ad accordarsi sotto banco con il
cartello di Cali, poiché loro stessi stanchi dello spadroneggiare di Escobar che
danneggia gli affari. Nonostante la DEA alle spalle, Pablo ama il suo Paese al
punto da non poterne stare lontano; è una belva spietata e individualista, ma che
si aggrappa al riconoscimento sociale aiutando le masse degli indigenti con la
costruzione di scuole e ospedali. Seppur un criminale, è stato un uomo
dalle grandissime doti, capace di creare un impero miliardario grazie ai suoi traffici illeciti. Un uomo paradossalmente del tutto normale,
con valori altrettanto importanti come la famiglia, il rispetto, la fiducia e,
sembra strano a dirsi, l'onestà.
Un
uomo con le sue debolezze, che non è riuscito a sopportare le troppe pressioni
e trasformatosi in mostro, uccidendo migliaia di innocenti e
ingaggiando una guerra civile contro il proprio governo.
Quell'ultima manciata degli episodi è memorabile ed Escobar, alla fine
della stagione, è rimasto solo; sarà, però, durante l'operazione del suo trasferimento, a scappare.
Il
cartello di Cali e persino i suoi sostenitori pensano di poter approfittare
della momentanea debolezza di Escobar per spodestarlo, mentre la DEA continua
la caccia con l'utilizzo di ogni singolo uomo dell'esercito. Murphy rimane un'utile voce narrante fuori campo fastidiosa, ma molto meno utile a riequilibrare
la narrazione. Peña fa un lavoro migliore a portare avanti la storia, mentre Murphy è impegnato a
prendere a pugni due ignari consumatori di cocaina, con la moglie Connie
fuggita negli Stati Uniti, oppressa dalla pericolosità di Medellín. Solo
negli ultimi due episodi, possiamo notare un vero cambiamento in Escobar, quando
lui stesso si rende conto dell'inevitabile caduta e inizia a non radersi la
barba. L'umanizzazione del criminale è completata,
fatta di controsensi, sogni ed ipocrisia della folle mente di Pablo. In quei pochi minuti prima di essere catturato osserviamo il declino di un uomo seduto nel suo bagno a pensare, un uomo che aveva mille ambizioni ma è
crollato, ma non saranno quegli istanti di consapevolezza a farlo arrendere; perché
lui è Pablo Escobar e non si vorrà mai consegnare alla polizia. In una fuga
contro il tempo che ci costringe a tenere gli occhi puntati allo schermo
assistiamo alla sua fine. Il finale aperto, che fa presagire il
coinvolgimento di Javier Peña nelle indagini relative ai nuovi cartelli della
droga colombiana, è coerente con le premesse del progetto.
Dai primi minuti assistiamo ad una
presentazione del cartello di Cali, della sua organizzazione capillare e
astuta, derivante dal grande spirito imprenditoriale dei fratelli Rodriguez (i
Patron), Gilberto e Miguel, insieme a Pacho (che gestisce le operazioni in
prima persona) e Chepe (che coordina il traffico di droga a New York), e notiamo
subito le differenze tra il cartello di Cali da quello di Medellín. La
sostanziale differenza con Escobar è che i Rodriguez vogliono apparire
persone per bene, costruendo una menzogna sociale, grazie alla
collaborazione delle classi più altolocate. Il loro sistema è subdolo in
quanto danno la parvenza di una pace sociale, occultando i peggiori crimini. Consapevoli
di un'imminente guerra e possibile crisi del proprio sistema, Gilberto e Miguel
stringono un accordo con gli USA per consegnare, dopo sei mesi di attività, le
chiavi del proprio impero, mantenendo ogni guadagno e privilegio.
Qui troviamo al
comando, per nostra gioia, solo l'agente Peña e i suoi fantastici baffi, che con il suo impegno per
distruggere, questa volta in prima persona, il cartello di Cali, e con la sua
voglia di riscatto, nega di riconoscere il cadavere di Escobar in una foto.
Nonostante
la narrazione troppo didascalica e ripetitiva a causa del sovraccarico di
informazioni già date, non mancano nemmeno in questa stagione memorabili
sequenze come il ballo passionale di Pacho nel primo episodio o la sparatoria
di New York dentro un salone di parrucchieri, senza dimenticare il blitz durante
la festa della salsa a Cali o il massacro di Pacho che poi si consegna alla
polizia durante un'irruzione in chiesa.
Nonostante l'assenza del boss di
Medellín, la sua pancia prominente e quell'aria annoiata, la produzione è
riuscita a tenere alta la qualità.
Siamo di fronte ad una narrazione che dall'inizio non è esattamente
lineare e chiarissima con tutti i suoi salti temporali, ma che prende quanto serve al fine di
comprendere una produzione di stampo realistico. Non c'è il rischio di provare
empatia per questi assassini. Quella di Escobar è una personalità ambivalente:
un criminale violento e senza scrupoli, ma nel suo intimo visionario, con in
mente un futuro diverso per la sua nazione. Come sappiamo, tuttavia, il
fine non sempre giustifica i mezzi.