Un improvviso ed inaspettato successo per la miniserie di quattro episodi Unorthodox, rilasciata da Netflix pochi mesi fa, in piena pandemia; si basa sull'autobiografia della scrittrice Deborah Feldman, che a diciannove anni è scappata, già sposata e con un figlio, dalla comunità ultra ortodossa di appartenenza. La serie è recitata quasi prevalentemente in Yiddish come quasi a farci sentire dentro a quella comunità con le sue particolari abitudini e i loro comportamenti. Inoltre è stata accusata di antisemitismo e di proporre un'immagine distorta della comunità ebraica. Nonostante ciò l'indice di gradimento è stato altissimo.
La protagonista della miniserie è la bravissima attrice israeliana Shira Haas, che interpreta un personaggio molto forte e complesso, quello di Esther Shapiro, detta Esty. In Esty leggiamo le sue insicurezze grazie al suo viso malinconico e un po' ci rispecchiamo in quello sguardo che contiene disperazione e meraviglia, dolore e tristezza, vergogna e coraggio. Anche il marito Yanki è interpretato con il massimo realismo, riconoscendolo non come cattivo ma descrivendolo con una sensibilità fuori dal comune, andando oltre gli stereotipi.
Esty è una giovanissima donna in fuga da un matrimonio combinato e dalla comunità chassidica dei Satmar, in cui è cresciuta grazie ai comandamenti della nonna e della zia e alle rigidissime regole della stessa comunità. Esty, in quel mondo, si sente diversa: ama la musica, che non può né ascoltare né praticare, in quanto attività scandalosa secondo le tradizioni di appartenenza. Non può nemmeno uscire, portando degli oggetti con sé, fino a quando non arriva il giorno sacro. Nonostante questo, si sforza di integrarsi, accettando il matrimonio combinato che le viene proposto e sperando in quella felicità tanto bramata.
In occasione del suo matrimonio, Esty deve tagliare i capelli, in quanto risulta sconveniente che questi vengano mostrati, così indossa una parrucca, e, tramite alcuni rituali, viene purificata. Privare una donna dei suoi capelli è come privarla della sua sensualità femminile e, per il suo mondo, l'unico scopo del corpo della donna è quello di procreare. Tutti questi rituali, rappresentati con un grande realismo, ci fanno comprendere i motivi che hanno spinto Esty a scappare.
Dopo un anno di matrimonio, fatto di umiliazioni e di dolore, non solo psicologico ma anche fisico, il quale nell'atto sessuale diventa la metafora del rigetto mentale e fisico alla vita a cui è destinata, Esty non ce la fa più.
La ragazza, non accettata dalla famiglia del marito e con molti dubbi sulla sua appartenenza alla comunità, si sente in una prigione, così decide di compiere un viaggio di nascosto da Williamsburg - da cui già sua madre era fuggita in precedenza - a Berlino, dove spera di ricominciare una nuova vita. È un viaggio, oltre che fisico, anche dell'anima, che va alla scoperta della propria identità. Infatti, a Berlino, Esty incontra un gruppo di musicisti che le aprono gli occhi sul mondo attuale: gesti quotidiani come indossare un paio di jeans o mettersi il rossetto, attività semplici come indossare un bikini in spiaggia o cantare a squarciagola. La capiamo e siamo dalla sua parte quando scopre, con la meraviglia di una bambina, che esistono tantissime risposte a qualsiasi domanda su internet. Attività sicuramente molto banali, ma possiamo comprendere che purtroppo ancora oggi esistono delle comunità piccole e isolate dove questa normalità non esiste. Quando Esty scopre l'esistenza di un programma che le permetterebbe di studiare in un conservatorio della città, dopo poche esitazioni, accetta, sentendosi così davvero libera di fare ciò che vuole, La musica, prima repressa, adesso la fa sentire viva e, tramite la sua canzone in Yiddish, si spoglia, mostrando la sua forza e debolezza: al di là dell'esito della performance, che non ci viene mostrato, Esty rinasce. Riacquistata la sua individualità, vede davanti ai suoi occhi la possibilità, forse l'unica, di ritornare nella sua comunità.